sicilia
“Oggi, invece di andare al mare, andremo a visitare Acireale, Aci Castello e Aci Trezza…”aveva esordito Cheddonna, la mattina a colazione.
“Lo sapevi, cara, che oltre a quelle che hai citato vi sono altre quattro “Aci”? Aci Bonaccorsi, Aci san Filippo, Aci Sant’Antonio e Aci Catena.
Il mito racconta che la ninfa Galatea fosse innamorata del giovane Aci e che il ciclope Polifemo, geloso, un giorno avesse cercato di attirare Galatea con le note del suo flauto, ma non essendoci riuscito, infuriato, avesse scagliato un enorme masso contro i due amanti, uccidendo Aci. Lei, poi, secondo Ovidio, trasformò il sangue dell’amato nelle acque di un fiume: l’Aci, da cui prendono nome questi paesini”.
“Polifemo? quello stordito che, dopo che Ulisse l’aveva accecato, gridò ai suoi fratelli che era stato Nessuno? Un imbranato totale…” aveva commentato IlPrincipe, addentando la sua brioche con gelato.
“Sì, la leggenda dice che i faraglioni di Aci Trezza altro non siano che i macigni lanciati dal ciclope a Ulisse in fuga…” aveva chiosato Miomarito.
“E proprio ad Aci Trezza sono ambientati ‘I Malavoglia’.Oggi andremo a visitare anche la casa del nespolo, che ospita un piccolo museo dedicato all’opera di Giovanni Verga!”aveva aggiunto Cheddonna, raggiante.
Appena sbarcata dall’aereo, a Catania, Cheddonna era stata investita dal caldo africano che ormai da parecchie settimane aveva fatto innalzare la colonnina di mercurio a temperature vicine ai quaranta gradi. Al nord, invece, l’estate sembrava ancora indecisa se fermarsi per un po’ o fare solo un veloce saluto, a giudicare dalle piogge costanti del mese di giugno.
La prima cosa che l’aveva colpita, arrivando, era stata la luce, intensa come raramente le era capitato di vederla, e i colori netti, senza ombre. Poi, abbassando lo sguardo, era stata colpita da uno spettacolo assai meno poetico, che l’aveva riportata bruscamente alla realtà: il marciapiede su cui stava camminando era cosparso di rifiuti e cartacce, una delle quali si era conficcata nel tacco dodici del suo sandalo gioiello.
“Certo che come biglietto da visita di una città, non è proprio il massimo! Speriamo che sia solo in questa zona.” aveva commentato, infastidita.
Giunti a destinazione, Cheddonna, Miomarito e IlPrincipe avevano parcheggiato l’auto presa a noleggio davanti alla villetta dove avrebbero trascorso le vacanze. “Be'” aveva commentato Cheddonna, sollevata, “qui i marciapiedi sono più puliti e, guarda!, ci sono perfino i cassonetti per la raccolta differenziata!”
Il giorno seguente, dopo aver diviso accuratamente i pochi resti della cena “take away” della sera precedente in plastica, carta e frazione umida, Cheddonna aveva incaricato Miomarito di portare i sacchetti ai rispettivi punti di raccolta, prima di recarsi alla spiaggia di ciottoli che separava la casa dal mare.
“Mamma, stasera esco con Salvo il bagnino e i ragazzi del lido.C’è un falò in spiaggia.Facciamo tardi. Stai tra’.” recitava il messaggio de IlPrincipe.
“Anche stasera!” aveva esclamato lei, con disappunto. “E’ una settimana che fa tardi tutte le sere!”
“E’giovane, è in vacanza, e si sta divertendo. E poi Salvo e gli altri sembrano dei bravi ragazzi. Non preoccuparti” l’aveva rassicurata Miomarito, che in vacanza diventava di vedute assai larghe.
“Cenetta romantica noi due soli?”aveva proposto e, prendendola per mano, l’aveva guidata fino a un ristorantino affacciato sul mare.
Cheddonna, per qualche ora, non aveva più pensato a IlPrincipe.
Milletrecento chilometri più su, NonnaNenna si stava preparando a recarsi al concerto dei Pooh, insieme alla banda del N.O.N.N.A. (Nuova organizzazione nonne + o -novantenni ardite).
La sera avanti, alla fiera della porchetta, aveva fatto le due, e quella precedente, al Circo all’aperto, addirittura le tre.
“Alla nostra età tre o quattro ore di sonno sono anche troppe!” ripeteva spesso, e la Zaira, l’Armida e l’Elvezia approvavano incondizionatamente.
A Cheddonna, invece, ne servivano otto, come minimo. Solo che, da quando IlPrincipe aveva cominciato a uscire, la sera, non riusciva a chiudere occhio fino a quando non lo sentiva rientrare, e ora, dopo una settimana di vacanza, era ridotta a uno straccio.
Ci aveva provato con tutte le sue forze, saziandosi con insalatine di stagione e frutta a volontà, in nome di un’alimentazione sana e leggera, povera di calorie e ricca di vitamine e sali minerali, importantissimi, soprattutto d’estate. Del resto non aveva passato gli ultimi tre mesi a cercare di eliminare quell’odioso cuscinetto sui fianchi, a costo di enormi sacrifici, per rovinare tutto in pochi giorni di trasgressione! Poi, però, era stata suo malgrado travolta. Intorno a lei torrenti di granite con panna, vulcani di brioche con gelato e montagne di frutta martorana le serravano il passo, impedendole ogni via di fuga e, infine, aveva ceduto e assaggiato i piatti tipici della tradizione siciliana, così diversi da costa a costa, da città a città, tanto da cambiare di nome e perfino di forma da un capo all’altro dell’Isola.Gli arancini appuntiti di Catania, ad esempio, a Palermo si chiamavano arancine ed erano tondi come l’omonimo agrume; e guai a invertire i nomi, se non si voleva essere guardati con disapprovazione dagli autoctoni.
Percorrendo l’isola, tra una sciara e un teatro greco, su spiagge nere come il carbone o bianche come la luna, sbocconcellando sfincioni e panelle, pane “cunzatu” e “ca meusa” si era chiesta spesso come avesse fatto a rinunciare a tutto questo, prima d’allora.